Vorrei ma non possiamo, dunque dobbiamo.

testo in catalogo per la mostra di Linda Rigotti “Impressione Verde.Costruzioni aperte in equilibrio dinamico.”

Vorrei ma non possiamo, dunque dobbiamo.

Vige un senso di forzatura nella relazione tra uomo e ambiente.
Un tentativo costante, da parte dell’uomo, di gestione, costruzione, occupazione.
Non penso all’abuso di un territorio, alla violazione della Terra, all’effetto serra…penso alla stonatura originaria tra l’uomo e un ambiente che viene prima di lui col quale ha imparato a relazionarsi, di cui sa sfruttare le risorse, amare le bellezze, pur restando sordo a un grado di reale comprensione, incapace a una relazione spontanea, non per pigrizia o arroganza, bensì per assenza di una lingua comune. Tra uomo e ambiente vige, a me pare, un’insanabile incomprensione.
Lasciandoci alle spalle la città, dove ogni dettaglio, ogni scorcio, ogni orizzonte è disegnato dall’uomo, e scendendo verso il mare o salendo in montagna, la manomissione diventa più evidente perchè non riesce ad essere mai completamente efficace. Il respingersi delle due forze si manifesta con più clamore. Interventi e azioni umane devono affidarsi alla ripetizione, alla riparazione, all’adeguamento.
Provate a mettere in ordine una montagna. Provate a dare un ordine alla terra, all’erba, a un prato, agli alberi, o addirittura alla roccia.
Provate a mettere in ordine il mare. Provate a fermare il mutare dell’aria.
Poi, laddove ci siete riusciti, calcolate quanto la situazione di ordine permane.

Vorrei essere semplicemente una roccia. Questo penso sia un pensiero che Linda fa spesso: però – continua – non possiamo venir meno al nostro essere umani, dunque dobbiamo sforzarci di stare di fronte a ciò che questo significa in un processo costante di ordinamento.
In questo, a me pare, si racchiude lo sforzo che costringe i lavori di Linda Rigotti.
Sospesi tra processo e forma si costituiscono nella forma del processo. E il processo si compone sempre della relazione tra due elementi: lei e la sua esperienza più diretta dei luoghi nel particolare, l’uomo e lo sviluppo del suo sapere in generale.
In mezzo scorre la vita, il movimento, l’azione, la trasformazione, non permanenti.
In mezzo tra lei e il luogo, come tra l’uomo e l’ambiente, scorre il disordine della natura contro l’incessante produzione umana di ordine.
Originaria del Trentino ma radicata a Bologna vive, per scelta, la condizione privilegiata di non appartenenza che garantisce la possibilità di osservazione a distanza del luogo delle origini oltre che di quello d’abitazione. E, ancora, la sua scelta l’ha portata ad abbandonare un luogo di natura in favore di un luogo di società. Sono, credo, premesse significative.
Priva di uno spazio fisico di raccolta si serve della fotografia, del video, del disegno a matita, di ciò che la cattura in ogni sito che attraversa. Non ha necessità di stare, bensì desiderio di non stare. E questo detta il procedere del suo lavoro in un tempo e uno spazio di relazione sempre variabile.

Il muro, in questa sua ricerca, è diventato uno dei principali attributi, l’azione stessa del costruirlo in questa mostra Impressione verde; costruzioni aperte in equilibrio dinamico, come nell’azione Help me to build the green wall del 2015 (?), e, ancora, lo starci di fronte nei murali di Woodwose (data?) o in quelli che ha realizzato nella scuola Nome dove insegna.
Il muro è un segno lasciato nell’ambiente, è manifestazione di presenza e nel suo stare nello spazio e sopravvivere nel tempo diventa dimensione essenziale e originaria dell’uomo.
Il muro è il segno primo della volontà e capacità umana di dar forma e ordine al ritmo disordinato delle forze naturali, è la struttura per eccellenza, dove ogni singolo elemento è indispensabile al tutto nel completarsi con gli altri. Il muro è il porsi dell’uomo di fronte all’aria, la terra, l’acqua e il fuoco, per giungere a una forma in cui questi elementi, che vivono invece di costante mutazione, vengano ordinati. Il muro è esperienza umana delle origini: dove ha imparato l’uomo se non dalla natura stessa ad innalzare muri, dove ha capito che muri potevano proteggerlo, ripararlo, difenderlo? Aristotele diceva che le arti architettoniche sono “origini” proprio nel loro produrre una dimensione originaria…
Il costruire un muro è dunque una produzione originaria e una forte azione simbolica.
Mettendo per un attimo da parte pregiudizi e contaminazioni linguistiche che ne sporcano oggi il gesto, l’atto del costruire è atto di potenza, azione elementare fondante l’impero dell’uomo, opera pre-linguistica. Chi sa fare un muro è salvo.
Ecco che imparare a costruirlo, acquisire il sapere o i saperi che ne permettono l’edificazione è un atto di salvezza, non solo personale ma universale. Edificare un muro è il primo gesto dell’uomo di affermazione nell’ambiente, è l’avvio di un processo di conoscenza ed esperienza del mondo.
L’uomo ha un suo posto e il muro ne è un segno, il primo segno del suo sapere e una dichiarazione di presenza in atto.

Divenuta scultura, segno significante nello spazio, il muro non è però pura forma ma è l’esito di un processo di apprendimento che l’artista sviluppa assieme a chi, portatore del mestiere, può offrirle un percorso di conoscenza, Relazione xxxxxx, Relazione yyyyy, Relazione zzzzz.
Allo stesso modo il ciclo di video Mentre sto a questo lago (2012), che pur va a confezionare un racconto mitico di un luogo indefinito (si tratta di una serie di azioni sul lago Molveno, ma potrebbe essere altrove), non si offre come esperienza diretta ma filtrata da un gruppo di ragazze che abitano il luogo da straniere. E, ancora, il gesto di Ciao, ti presento loro (2015) si serve degli occhi di altre persone, fino anche al vero e proprio racconto orale di Il loro amore era una montagna che conosceva tutta la storia di lei e di lui, e le morti, le vite e le nascite. Il ritorno ripercorrendo le ragioni che hanno mosso ciascun lavoro e nel complesso l’intera ricerca (2015), opera che arriva a non esistere senza l’interazione con gli ascoltatori.
La narrazione insita già nei titoli dei lavori è segno di una chiamata all’ascolto, di un’apertura oltre il sé. L’uso che fa di fotografia e disegno (vicini il più possibile al reale), poi, è assolutamente soggettivo, introspettivo, finanche narcisistico nel desiderio che l’artista esprime di incontrare se stessa e di porsi di fronte agli altri. Utile e desiderata la relazione funge da specchio per collocare il sé ma al tempo stesso per astrarlo dalla sua unicità: io non sono l’altro ma nell’altro c’è traccia di me.
Nel lavoro i due elementi di partenza, uomo e ambiente, artista e luogo si incontrano sostanziandosi in una presenza che non è mai però propriamente opera perché si compone anche di un tempo e uno spazio lì non contenuti e di un flusso di relazioni precedentemente intercorso e prossimamente in circolazione che mette in atto indefinibili varianti. Tra un uomo e un altro c’è un mondo intero come tra quello stesso uomo e il mondo c’è un altro mondo: Jean -Luc Nancy scrive che l’opera è il tocco plurale dell’origine singolare. (1)
Posto che… – si dice in Fisica -…le variabili saranno poi imprecisate.
Nelle azioni cui assistiamo i presupposti vengono quasi sempre definiti tramite due modalità contrapposte, la premeditazione e il disinteresse per l’esito, o, potremmo dire, il calcolo e il gioco, dove l’uno detta le regole dell’altro nella consapevolezza che proprio il fattore ludico, il disinteresse, la non funzionalità, può metterle in discussione. I processi non giungono mai a un’opera autonoma, in un percorso che, anzi, a partire dall’esperienza biografica mira alla messa in comune, alla trasformazione dell’opera in un atto plurale dove chi guarda e chi partecipa attiva un sistema di relazioni e possibilità non calcolabili.
A dispetto dell’apparenza niente è in realtà fermo perché tutto è in trasformazione. L’opera è quel luogo in cui la concentrazione di relazioni tra chi è presente e chi è passato, tra ciò che è e ciò che è stata, genera continui scambi e alterazioni di un ordine solo istantaneo.
Quando è riuscita – scrive Nicolas Bourriaud – un’opera mira sempre al di là della sua semplice presenza nello spazio; si apre al dialogo, alla discussione, a quella forma di negoziazione interumana che Marcel Duchamp chiamava “coefficiente d’arte”, un processo temporale che si gioca qui e ora. (2)
Nell’opera si attiva dunque uno spazio di conoscenza che ha origine proprio da quel vincolo inderogabile tra uomo e ambiente. L’opera è quello spazio in cui la relazione si fa manifesta e lo stare dell’uomo si fa pro-duzione nella presenza, prassi, attività libera e voluta. (3)

 

1__Nancy J-L., Essere singolare plurale, Einaudi, Torino, 2010, p. 23.
2__Bourriaud N., Estetica relazionale, Postmedia, Milano, 2010, p. 43
3__Agamben G., L’uomo senza contenuto, Quodlibet, Macerata, 1994, p. 153.