Un vaso annoiato può arrivare a darti l’ora dell’ennesimo giorno che trascorre per strada a portare piante, come il ricciolo ribelle di un’inferriata a fuggire letteralmente da sotto i tuoi occhi per saltare nella finestra accanto. La realtà che ci circonda offre molte più possibilità di quelle che siamo abituati a prendere in considerazione. La realtà visibile, le cose, gli oggetti, le persone, le situazioni, contengono in sé un microcosmo che va oltre il loro apparire funzionale o relazionale nel macrocosmo. Essa contiene tutto ciò che ci serve, che serve alla vita pratica ma anche a quella contemplativa, di cui è incondizionatamente e ineluttabilmente punto di partenza. L’arte riesce a rendere vere e tangibili le possibilità di realtà che vanno oltre il visibile realizzando una visione, uno sguardo, un pensiero. Markus Hofer opera proprio in questo senso. Il suo sguardo sulle cose ne muta la forma e il senso originari in qualcosa di nuovo, che tuttavia non perde il legame con il reale da cui deriva. Molto concreti anche nel loro sempre ricercato aspetto estetico, i suoi interventi nei luoghi partono proprio da caratteristiche già appartenenti alla realtà che li circondano. Essa viene potenziata, sottolineata, moltiplicata, nei suoi significati. La realtà esistente diventa punto di partenza non da citare, bensì da disarticolare, da scardinare nelle sue certezze, alla ricerca di nuove risposte a ciò che ci circonda. Azioni, oggetti, forme e colori generano orizzonti di possibilità. Inseriti all’interno di un contesto che ha già una sua strutturazione e composizione indipendente, che è già immagine autonoma nella realtà, formata da macchie, forme, linee e colori, gli oggetti che Markus Hofer produce cominciano ad esistere al di là della loro originaria funzione generando un “rituale […] assurdo dal punto di vista della vita, ma capace di attirare l’oggetto nella sfera dell’arte”1. Ogni oggetto, il più banale, svela un’essenza inattesa se estrapolato dal suo aspetto utilitario, se liberato dalla sua struttura funzionale, per essere messo al servizio dell’arte, per essere collocato all’interno dello spazio illusorio dell’immagine. Gli interventi di Markus Hofer diventano così fortemente narrativi, generano immagini che diventano incipit di racconti che ognuno di noi può fare propri. Ogni intervento, collocato in un certo contesto da cui non può mai prescindere, fa succedere qualcosa. Ogni intervento interrompe il tempo che stiamo vivendo per creare un altro livello di percezione. Ogni intervento si inserisce nelle consistenza della realtà per diventare surrealtà tangibile. Hofer ci offre il suo sguardo cognitivo su una realtà che va scoprendo: che cosa scorrerà nei tubi, quale vita si svolgerà dentro lo Studio di Markus Hofer in una casa bolognese? In questo senso gli interventi site specific di Markus Hofer si relazionano alla realtà e alla sua complessità, in modo trasversale, non diretto, per mezzo dell’illusione. Attraverso il suo punto di vista, gli interventi dell’artista non dichiarano, né documentano stati di fatto, bensì intaccano il nostro immaginario quotidiano in modo controllato, sorvegliato, mai in modo puramente spettacolare. Il caso, “la fede nel miracolo possibile” del teatro di Alfred Jarry è sempre partecipe delle sue azioni. Le azioni di Hofer in questo senso rimandano proprio alla pratica del teatro dell’assurdo; una pratica che persegue il valore della realtà, che annulla il palco, la distanza dal pubblico per entrare come azione nella vita reale; una pratica che si propone di rispondere al bisogno di credere in ciò che si vede, di essere cosciente di essere partecipe non di una rappresentazione bensì di un “avvenimento” della proprio stessa esistenza. Invitato a Bologna per il programma di residenza di Nosadella.due, l’artista ha dato vita ad un dialogo con le circostanze della città e i materiali che metteva a disposizione. Giunto volontariamente in città senza alcuno strumento, ogni necessità è stata esaudita in sito, attraverso la ricerca personale, la richiesta alle persone conosciute, l’adeguamento alle possibilità offerte. Gli Interventi Bolognesi hanno così preso vita come esito del suo sguardo e della sua sempre acuta immaginazione rispetto al contesto in cui andava operando, diventando interruzioni di percorso per i cittadini, che se ne riconoscevano a un primo livello la stravaganza rispetto al quotidiano, non arrivavano a comprenderne l’origine. Questo era reso possibile anche grazie all’elegante discrezione con cui tutti gli interventi si distribuivano in città, all’intelligenza con cui il più banale materiale cittadino era stato trasformato in materia per l’immaginazione, ad un abusivismo degli spazi pubblici tradotto in chiave di arricchimento, senza alcun danno, ma anzi attraverso la generosità di una concessione totale ai cittadini. Nessun intervento di Hofer reca danno alle strutture con cui dialoga, nessun intervento è invasivo o permanente, ma come un’immagine fantastica viene lasciato al corso del suo tempo, che man mano lo trasforma o lo cancella. Le sue tracce nei luoghi sono sempre minimali proprio perché richiedono attenzione e non vogliono alterare uno stato di percezione, bensì inserirsi come elementi disturbanti, quesiti, talvolta ironici, sulla vita e le sue forme. Le persone stesse entrano, d’altra parte, nel suo lavoro. Ciò che ogni persona in sito può offrirgli diventa materiale di ricerca, di arricchimento, di scoperta. Lo stupore che ogni suo lavoro si propone di generare è prima di tutto il suo stupore e quello dello sguardo degli altri. Il pubblico non può rimanere distante, perché ciò che Hofer intacca è ciò che al pubblico appartiene. L’artista chiede al suo pubblico una profonda adesione e una stretta complicità nel lasciarsi guidare a mettere in discussione i suoi sensi, la sua esperienza, le sue convinzioni, ad opporsi ad ogni elemento che conduca alla stabilizzazione di una superficiale conoscenza. In questo senso il lavoro di Hofer è audace fino all’arroganza, scava in profondità e richiede sempre partecipazione. Al tempo stesso la grande dote che lo caratterizza è quella della “leggerezza”, la capacità di lavorare e realizzare progetti “leggeri”, in cui non viene mai meno lo humor ma che riescono ad essere tali anche nella stessa realizzazione. La grande versatilità che caratterizza la produzione dei suoi interventi nei luoghi, traduce e racconta una condizione attuale di mobilità: mobilità fisica, ma anche necessità di adeguamento a differenti contesti. Una mobilità che è attributo dell’era attuale e che ha imposto anche all’espressione artistica la necessità di leggerezza, l’abilità di adeguarsi alle situazioni, di adattare la propria pratica alle circostanze. Lavorare con poco, con quello che si ha a disposizione, ma anche con quello che di volta in volta si trova nei vari contesti lasciando a buona parte del lavoro una certa flessibilità, è diventato un requisito imprescindibile per il lavoro artistico oggi. Il materiale passa dunque in secondo piano, spesso difficile da reperire o soggetto ad esigenze sempre più specifiche, mentre la creatività riprende il suo posto da protagonista. L’opera, pur nella sua autarchia, deve trovare posto nella complessità che la circonda, deve entrare a contatto con la pluralità d’identità del mondo, non precipitarvi come un ufo dallo spazio. Markus Hofer eccelle proprio in questo. Nel trasformare l’opera in processo cognitivo della realtà a partire da quella che ci è più vicina. E riesce a farlo con poco, e tramite un approccio peculiare come l’ironia, che ha adottato, ancora al pari della pratica teatrale, anche come manifesto di vita, per trasformare in comicità le tragedie dell’esistenza.