Lo spazio artificiale

testo per la mostra di Angelo Bellobono "Linea Appennino 1201" / AlbumArte (Roma)

Ci siamo visti il 15 settembre, la sera tra il Cimone e il Maggiorasca, ormai alla fine dell’attraversamento appenninico iniziato all’inizio di agosto.
Ho scelto l’Albergo Corsini di Rocca Corneta, a metà strada tra Sestola, dove stava Angelo, e Gaggio Montano, dove stavo io.
Messa così sembrerebbe la premessa di un appuntamento galante, in realtà l’Albergo Corsini è il tipico ristorante con camere che si trova sulla strada provinciale della nostra montagna, dove gli autoctoni, anche detti “ingenui” o “nativi”, vanno a giocare a carte la sera.
Ci siamo trovati per cena, Angelo era appena sceso dal Cimone.
Al bancone era attaccato un cartello con su scritto in evidenziatore “POS rotto”. Ho pensato che avevo solo dieci euro e che avrei dovuto farmi offrire la cena. Mi sentivo impreparata a farmi testimone di un percorso tanto personale e al tempo stesso, prioritariamente, così tecnico.
La prima domanda che gli ho fatto è stata: Allora qual è il tuo monte preferito?
Mi ha risposto con un certo distacco che non ce n’era uno preferito ma che quello che certamente lo aveva impressionato di più era stato il Monte Meta, al confine tra Lazio, Abruzzo e Molise.
Mi ha detto: E’ un luogo in cui riesci a percepire come doveva essere prima dell’uomo, un posto ancora primitivo.

Nel mio lavoro (come curatrice mi occupo principalmente di seguire la fase di produzione di progetti artistici in spazi non convenzionali) di solito mi trovo ad avere a che fare con opere che hanno problemi di fattibilità e accessibilità, sia fisica che intellettuale, opere che attivano i cosiddetti “processi” che strabordano sia prima che dopo la creazione dell’opera stessa.
Angelo Bellobono l’ho conosciuto così. Sono rimasta affascinata dal suo progetto Atla(s)Now, un programma di residenza cui ha dato vita sulle montagne dell’Atlante in Marocco, mettendo insieme la sua esperienza sciistica col desiderio di creare una relazione duratura con queste vette attraverso le comunità che le abitano.

Il suo lavoro si compone di due aspetti, a mio parere complementari.
Il primo si nutre di relazioni, volte a comprendere, a mettersi in dialogo con l’alterità da cui necessariamente proveniamo, a riflettere sulle radici comuni, a testare l’impatto dell’arte su contesti sensibili attraverso la creazione di microsistemi “dare-avere” che infine si autoregolano.
Il secondo confluisce in studio, nella pittura, oggetto specifico di questa mostra.

Non scriverò questa volta del “processo”, ovvero del primo aspetto, perchè mi sembrerebbe di firmare la giustificazione a un quadro. Vorrei invece parlare della pittura, imbrigliare me stessa nella matassa complessa del dipingere, perchè credo che questo abbia a che fare con la pittura di Angelo, o almeno è dove mi ha condotto, portandomi di fronte a opere non solo fattibili e accessibili quali sono i dipinti, ma anche profondamente personali, al punto da non necessitare quasi di alcuna disamina a riguardo.

Già, perchè di fronte a un dipinto c’è poco da chiosare. Deve essere o non essere, emozionare o meno, comunicarci qualcosa oppure no, portarci dentro a un discorso che magari gli è anche estraneo, ma che necessariamente nasce da lì, non da postille esterne.
Quando Angelo mi ha invitato in studio, a Roma, nel quartiere di Montesacro, una volta entrata ho dovuto violentamente tirare il freno a mano: nessuna premessa, nessuno studio di fattibilità, nessuna parafrasi, il quadro e basta, e l’invito a starci di fronte.
Le sue tele hanno spesso dimensioni che si ripetono, 2x2m, 1x1m, tutte maneggiabili allargando le braccia, poi ci sono quadri più piccoli e molto piccoli, e superfici diverse, plastiche, libri, riviste (d’arte) su cui interviene per interrogare lo spazio pittorico. Per dipingere Angelo usa qualsiasi strumento, oltre i pennelli, la mani, spatole o pezzetti di plastica. Un quadro può nascere in un paio di giorni come restare “fermo” per mesi. Trovarsi di fronte a un dipinto passa per me preliminariamente per questo tipo di indagini. La pittura, paradossalmente, non è quasi mai immediata, si svela poco alla volta e sebbene venga facilmente fatta coincidere con l’immagine dipinta, fuori da essa in realtà c’è tutto il resto.
Quella di Angelo Bellobono, a mio parere, è un’indagine sul proprio fare pittura principalmente oltre l’immagine. Dipingere sembra offrirgli la possibilità di entrare dentro la pittura stessa per prenderne poi le distanze e porsi in osservazione, diventando spettatore.

Percorrere le vertebre più alte della spina appenninica, ciò che ha dato il via alla serie pittorica Linea Appennino 1201, coincide, allargando lo sguardo, con la presa di possesso dell’Appennino stesso, non con una serie di salite e discese, bensì con un’esperienza unica, archetipica, di appropriazione di un luogo originario e inafferrabile.
Quando Angelo mi ha mostrato il disegno con la linea del percorso che avrebbe fatto, prima di qualsiasi quadro, prima di qualsiasi foto, prima di qualsiasi fatica, io ho visto l’Appennino come catena montuosa a me ben nota ma non riconducibile a un’unica immagine.
Il gesto di appropriazione delle otto terre appenniniche, di colore e consistenza diversi, è coinciso con un atto di conquista, con l’andare a prendersi e scegliersi i mezzi del proprio lavoro (l’arte) alla loro origine, col ricondurre il paesaggio all’uomo e col ri-equilibrare la relazione tra natura e cultura, primitivo e biografico, tra colui che per primo ha inciso (intervendo sul paesaggio) e chi oggi ancora dipinge.
Tornando quindi alla pittura a me pare vi confluisca un atto di restituzione di un attraversamento del paesaggio che non nasce da un’attitudine romantica nè tanto meno en plein air, ma che investiga l’atto stesso del dipingere, e che in una tela come Monte Appennino l’atto di mescolarvi tutte le terre per farne un’unica materia pittorica si specchi prima di tutto il fare pittorico.

Angelo è un maestro di sci e fin da bambino, mi raccontava, giocava col paesaggio, risalendo letti di fiumi, scovando gli animali nelle loro tane, girovagando per boschi alla ricerca di indizi. Eppure Angelo è originario di Nettuno, sul litorale laziale, ed è quando rimette i piedi nella sabbia calda che si sente a casa, come tutti i marittimi. La montagna è un territorio che invece ha imparato a conoscere, a fare proprio, a leggere, di cui ora sa i codici grazie a un percorso di apprendimento che è passato per l’esperienza fisica. L’atto di possedere/habere la montagna è allora un gesto simbolico per abitare un paesaggio che ha imparato e fatto suo a proprio modo, così come ha imparato a dipingere, ovvero a creare una relazione vitale tra se stesso e la pittura.
Lo spazio della tela è uno spazio artificiale privilegiato, uno spazio vuoto (quali altri spazi vuoti ci capita di incontrare?), su cui vedere prender forma un’intenzione.
Ciò che amo dei dipinti è la loro sintesi furba e forzata dentro a uno spazio circoscritto, la loro capacità di dar vita a un luogo che prima non esisteva, un luogo unico e autonomo, che resta così com’è e può essere astratto dalla condizione in cui è inserito.
Angelo parla del dipingere come di un atto installativo, laddove la superficie pittorica è lo spazio in cui si orchestrano i segni e prende forma il dipinto. Ed è vero, il quadro, per sua natura, altro non è che un’installazione, un nuovo spazio dove ogni segno concorre all’impianto generale.
Inteso in modo così fisico diventa anch’esso un attraversamento.
Non è un caso quindi che la serie di dipinti di Linea Appennino 1201 nasca dal desiderio fisico di toccare la dorsale appenninica, dall’intenzionalità del corpo, dal suo porsi a disposizione e in relazione al mondo, da quel primo aspetto del suo lavoro che descrivevo sopra.
La pittura di Angelo Bellobono muove da un’esperienza per convergere poi in un’immagine che prende forma sulla tela a partire dall’esperienza stessa, ma non si tratta mai di riprodurre un paesaggio, bensì di confidare a quello spazio il “proprio” paesaggio, quasi per paura che possa scomparire.

Una volta entrata in studio mi ha detto Sai, ho sognato che mi veniva cancellato il paesaggio da davanti, che mi veniva graffiato via.

L’immagine è come se alla fine restasse in potenza, al di qua di una possibile narrazione.
Dipingere o svuotare lo zaino – come dice lui – consiste allora, forse, nel tentativo di non vedersi cancellare via il proprio vedere dall’oggettività dello sguardo, quando impara a mettere in ordine ogni cosa, ogni segno, nella costruzione di un’immagine precisa, dal desiderio di preservare quello spazio in cui restare radicati al proprio vedere ingenuo e nativo, creandosi nella pittura lo spazio artificiale per un riflettersi originario.