In quel bacio dove nasce l’orizzonte
Guardare l’orizzonte ha un fascino arcano.
L’orizzonte è l’ultima destinazione dello sguardo, il grado ultimo della visibilità, il punto in cui la nostra visione si arresta.
Quando si sale su una montagna, su una torre, su un tetto…è la possibilità di allungarsi a un orizzonte ancora più lontano che ci seduce.
Destinazione dell’occhio e non del corpo esso esiste non in quanto meta fisica bensì visiva.
Esso richiede allo sguardo di attraversare una distanza tra il corpo e la vista. L’orizzonte è un luogo che contiene tutto ciò che accade prima, che ci accoglie come il proscenio di un teatro.
L’orizzonte è distanza. L’orizzonte è una distanza che ci proietta oltre, una forza che ci risucchia in una direzione precisa, definendo le coordinate del nostro sguardo.
La prospettiva rinascimentale ha inventato una rappresentazione di questo spazio di distanza tra chi guarda e il punto più lontano della visione. Ha definito il “punto di fuga” includendo in questa definizione proprio un’azione di movimento per cui l’occhio fugge, corre lungo traiettorie che organizzano con ordine tutto lo spazio dell’immagine. L’arte moderna, poi, ha fatto di questo tema un punto forte di rottura, liberando l’immagine dalla necessità di quell’ordine prestabilito e mettendo in discussione i piani per portare l’attenzione sempre più sulla superficie, su dettagli e impressioni, pennellate ed effetti, fino a sdoganare la possibilità di una non-rappresentazione, in quella che definiamo generalmente “arte astratta”. La modernità ha riportato tutto all’immediata prossimità dello sguardo, l’orizzonte è diventato il quadro stesso.
La fotografia, tra le conquiste della modernità, ha rimesso insieme le due visioni, ordine e disordine, prossimità e distanza. Una fotografia è una finestra che ci fa correre lungo le profondità della realtà, ma vive al tempo stesso dell’intensità della superficie, della sua vincolante bidimensione, di una lettura destra-sinistra e alto-basso che trova però intervalli di attraversamento.
E’ compito esatto del fotografo attivare forze interne all’immagine affinché la lettura della superficie incontri traiettorie di penetrazione.
Le immagini cui ci pone davanti Giovanni Ozzola sono esattamente questo, luoghi da attraversare volgendo lo sguardo a un orizzonte. Il piano ravvicinato che sta addosso a chi guarda, la stanza o il paesaggio in cui ci si trova, la preziosità dei dettagli, invitano lo sguardo a non sostare, ad allungarsi oltre, a un piano ulteriore, fino al suo massimo grado, trasformando l’esperienza della visione in quella dell’attraversamento e la contemplazione in trapasso.
L’immagine diventa luogo della distanza, sguardo verso un orizzonte, un’immagine da leggere da qui, di fronte ad essa, a là, oltre ciò che si guarda. In essa è viva una tensione che ci conduce verso un punto di destinazione che non si trova in superficie ma va proiettato oltre l’immagine stessa.
Il soggetto diventa luogo di transito, un pretesto per generare un viaggio.
Questa piccola urna, dal titolo Sedimenti-memorie, con il tesoro che racchiude, è dunque un varco da attraversare. La luce che ne proviene non definisce profili, non è lì per far emergere le forme dal buio, al contrario, per far sì che lo sguardo passi oltre. E’ un richiamo ad un qualcosa che sta avvenendo al di là di quel vetro che offusca le sagome, qualcosa di vivo, rispetto alla natura morta che ci troviamo di fronte. Più che un omaggio alle bottiglie di Giorgio Morandi diventa dunque uno still life (e penso qui anche alla serie di Still Life di Luigi Ghirri) che confina quel “quadro” a un suo spazio. Immerso in un’oscurità non giustificata non ci è concesso di approfondirne i toni o di studiarne gli equilibri compostivi, non siamo invitati ad immergerci in un’atmosfera. La cornice di buio così come il ricciolo di un’antica sedia in primo piano ci tengono allertati, ci rendono consapevoli della nostra posizione di spettatori definendo con precisione i vari piani dell’immagine.
Da qui a lì, anzi a laggiù, oltre quel vetro, oltre quel quadro, questo scatto crea uno spazio da percorrere, non più sulla sua superficie ma penetrando la sua profondità. Dalla sagoma in evidenza che dall’ombra emerge solo dopo un primo sguardo, dal fuoco centrale di quel vetro, l’immagine prende un’altra forma, si allarga e si organizza per risucchiarci laggiù.
Non è lì, al centro, che ha luogo l’accadimento cui siamo invitati ad assistere, bensì oltre quel quadro, laddove un colpo di luce incontra una macchia scura e in quel bacio fa nascere un orizzonte.
Improvvisamente il nostro sguardo si distrae dai vasi e viene catturato da quell’istante di luce che dall’alto arriva a benedire una scena che non ci è dato vedere.
Sedimenti-memorie è per me un’epifania.
Rivolta a un altare carico di ornamenti, quasi prendessi parte a un rituale iniziatico al cospetto di una mensa sacrificale su cui l’immagine viene immolata, una forza interna mi conduce verso un nuovo viaggio che mi distrae da ciò che immediatamente riconoscono per farmi innamorare di quell’ignoto che all’orizzonte posso solo indistintamente percepire.
Ogni immagine che si deposita allo sguardo è immediatamente passata a favore di un presente che si rinnova. Ogni immagine scandisce il passare del tempo. E la fotografia nasce proprio per questo, traslare la memoria del reale. Ogni immagine fotografica sacrifica tutto ciò che le sta attorno, diventando un frammento astratto e sospeso ma consegnandosi al tempo come fonte d’azione che fa avanzare, traghettare, trasmettere, la memoria. Qui assistiamo proprio a questo processo di trapasso del tempo, e laddove, laggiù, la luce viene nuovamente catturata, nasce un nuovo orizzonte incerto.
Ogni scatto, nel lavoro di Ozzola, è un invito a sporgersi fino a là. Quel racconto che ha inizio dietro di noi, quando la sedia non è più visibile, ci transita verso una nuova destinazione, uno spazio sacro e divino, insondabile. Sedimenti-memorie è un valico in cui il tempo si consuma nel corso di uno sguardo. E in quello sguardo l’immagine immortalata si immola al tempo lasciando l’unica via di fuga laggiù dove l’orizzonte si consuma. In mezzo tutto è già accaduto, eppure è lì sotto il nostro sguardo, e accade nuovamente.