L’Italia di Kentridge

Una processione. Niente di più italiano. Italiani, un popolo di credenti, nonostante tutto, un popolo di romantici e nostalgici. E per fortuna. Qualcosa ancora c’è rimasto. La nostra memoria, storica e attuale, la nostra cultura, ciò che vivifica ancora oggi il senso comune.
A ricordarcelo è William Kentridge, un artista sudafricano ormai noto in tutto il mondo che l’Italia la ama e che risiede ora nella capitale per seguire i lavori del suo Triumphs and Laments: un progetto per Roma, un’opera urbana di cui si parla da tempo, voluta e ideata da più di tre anni grazie all’invito rivoltogli dall’Associazione Tevereterno. Maestro della tecnica e delle tecniche, sperimentatore indisciplinato che passa dal disegno all’animazione, dalla scultura al teatro, questa volta Kentridge è invitato da un’altra artista, Kristin Jones, direttore artistico dell’associazione e del progetto, ad adottare una nuova tecnica, già nota ai graffitisti più “bio”, l’arte del vapore, sì, proprio come la vaporella che si usa sui vetri di casa…solo su grandi, grandissime dimensioni, per mezzo di stencil alti fino a 12 metri.
Con questa tecnica una squadra di volontari, che ha prima ripulito dai rifiuti l’area del lungotevere destinata all’operazione, ha affiancato l’artista sotto la direzione tecnica di STEP s.r.l. nella realizzazione degli ottanta disegni ricavati sui muraglioni di travertino che arginano il Tevere per mezzo della pulizia della patina biologica depositatasi nel tempo. Figure-fantasma animano questa processione che si protrae per oltre mezzo chilometro quasi ballando al dondolio delle onde del fiume. Sì, perchè tutto nasce da lì, dal fiume, da questo fiume che è il Tevere, dove i fondatori della città trovano la vita, dove inizia a scorrere la storia tra “trionfi e lamenti” fin dalla lotta originaria dei due gemelli, Romolo e Remo.
E non a caso. L’arte di Kentridge è così. Generativa. Si nutre del costante movimento dello sguardo e del pensiero, dell’influenza libera di uno sull’altro, del sovrapporsi di memorie presenti e passate, del continuo aggiustarsi dei segni.
Queste figure vivranno di una loro vita, nel tempo cambieranno, saranno sguardo silente di accadimenti e memoria incombente di eventi trascorsi, effimeri aliti, nuvole in trasformazione.
Si tratta di una danza di santi, re e regine, eroi e ribelli. Da piazza Tevere, tra Ponte Sisto e Ponte Mazzini è facile scorrere quella che sembra la proiezione di una pellicola su cui l’artista ha immortalato i simboli della storia della città, laddove non è difficile riconoscere personaggi cinematografici accanto a volti imperiali e imperialistici, o a quelli di eretici e reietti, iconografia e agiografia che da sempre accompagna un nostro immaginario (non solo romano) che qui ci viene posto di fronte, viene fatto emergere come da un inconscio collettivo.
Quest’opera più che per sé Kentridge sembra averla fatta per noi, per noi italiani. Ed è ciò che accade d’altra parte quando un artista esce da una galleria o da un museo per incontrare uno spazio altro, e come in questo caso, urbano. L’opera in sé non appartiene più solo a lui ma ad una comunità e sarà la comunità, poi, nel tempo, a legittimarne o meno la presenza, a decidere o, meglio, a sentire, se in quell’opera ci si rispecchia oppure no. Dopo un reciproco annusamento, talvolta passando per parziali o irritati imbrattamenti e violazioni, talaltra per totali atti devozionali…sarà interessante vedere che ne faranno i romani di quest’opera così delicata. L’artista sembra dirci “Io ho solo svelato ciò che stava sotto la patina, ciò che voi siete e da dove venite (certo, di fronte agli occhi di uno straniero), ora sta a voi decidere che farne, dei trionfi, come delle sconfitte. Certo ci sarà una manutenzione costante e si può parlare di un progetto che ha avviato un’opera di risanamento o rigenerazione di un’area degradata, ma quel che è più eloquente è l’atto di restituzione che Kentridge ha fatto, quasi senza aggiungere niente a ciò che la città e la sua popolazione (non solo di residenti) già avevano.

L’inaugurazione ufficiale è stata pensata in occasione del Natale romano, il 21 aprile, quando, nel 753 a.C., veniva leggendariamente fondata la città di Roma, e l’opera verrà accompagnata da un concerto-performance ideato dall’artista in collaborazione con i compositori sudafricani Philip Miller e Thuthuka Sibisi (alle ore 20.30 con repliche il giorno dopo alle 20:30 e alle 22:30). Una danza di ombre e oltre quaranta vocalisti e musicisti alle prese con strumenti molto diversi quali la kora africana e la zampogna italiana suoneranno musiche originali nel corso di due processioni musicali, dei trionfi, e dei lamenti.
Promosso anche dall’Assessorato alla Cultura e allo Sport di Roma Capitale, il progetto è stato reso possibile grazie al supporto delle due gallerie che dalla fine degli anni Novanta seguono e sostengono il lavoro dell’artista, non solo entro le mura dei loro spazi, Lia Rumma e Marian Goodman.
A completamento del progetto nella sede di Milano di Lia Rumma da pochi giorni si è inaugurata la mostra Triumphs, Laments And Other Processions (fino al 24 maggio) che propone un percorso complementare all’intervento urbano di Roma. Qui infatti l’artista apre un excursus sul processo che precede l’installazione mettendo in mostra i disegni a carboncino, gli inchiostri e i collage preparatori all’opera finale.
Al primo piano, una lunga bacheca mette in fila le figure che ritroviamo sul lungotevere, tracciate a carboncino su pagine di vecchi libri mastri ottocenteschi appartenenti forse a latifondisti del nuovo Regno d’Italia o ricavate da ritagli di cartoncino nero su vecchie mappe invece d’epoca coloniale. Artista anche, se non soprattutto, dedito a decodificare gli aspetti politici della storia dell’uomo, William Kentridge da tempo è considerato uno dei rappresentanti più significativi del suo paese per come ha trattato e rielaborato il tema razziale e la storia coloniale. Sudafricano bianco, figlio di avvocati difensori dei diritti umani, che vive in prima persona la complessità di una posizione ambigua, fa della sua arte non tanto un gesto di denuncia ma uno specchio che riflette la complessità della storia, il suo ripetersi, sovrapporsi, cancellarsi e riproporsi alla memoria. Al piano terra, la grande installazione video More Sweetly Play the Dance (2015) su otto schermi, a formare un cerchio (che ha del circense) per oltre 40 metri di lunghezza, anch’essa una parata, questa volta musicata, porta il visitatore dentro una marcia politica, migratoria, guidata da una banda di ottoni e chiusa dalla danza inconfondibile di Dada Masilo (ballerina sudafricana che da tempo lavora con l’artista) che, in punta di piedi porta con sé un fucile a protezione o minaccia del gruppo di marcianti. Ognuno porta un fardello, o una bandiera, sorreggendo un’asta su cui si innesta una grande silhouette: un gruppo di preti ondeggia gigli giganti, pazienti avanzano con le loro flebo, accademici in toga innalzano sopra i loro capi busti di filosofi dell’epoca classica, altri brandiscono ritratti di propagandisti, gabbie, scheletri danzanti, una vasca da bagno…Sulle loro teste palpita un altro ritmo di enigmatici vessilli, gli stessi che riconosciamo al piano sopra come sculture, appese al muro.
Una forma, quella delle Processioni, che nasce quasi vent’anni fa quando Kentridge inizia le Shadow Procession su muro e continua nel tempo conoscendo ogni volta una narrazione diversa.
Danze macabre, marce verso buchi neri, passi insistenti di uomini soli che fronteggiano lo scorrere implacabile del tempo. E’ la solitudine meditativa del camminatore, ma anche una solitudine spietata quale quella sociale – ha raccontato recentemente l’artista rispetto a quest’ultima installazione in mostra – file di persone che camminano in fila indiana da una paese a un altro, da una vita verso un futuro sconosciuto. Processioni disperate e ma in certo senso anche devote, forse non così dissimili da una ritualità popolare che riesce (o forse riusciva) a far aderire intere comunità in quel semplice gesto “dovuto”.