“Blackout” con Nico Dockx e Andreas Golinski

Mostra di fine residenza

Nico Dockx (B) e Andreas Golinski (D) sono artisti in residenza a Nosadella.due da novembre 2007 a gennaio 2008.

L’invito a Nico Dockx, selezionato dal curatore del MAMbo Andrea Viliani, in collaborazione con Nosadella.due e Gino Giannuizzi di neon>campobase, ha dato vita a un inedito progetto di collaborazione, a una convergenza solidale verso un’unica modalità d’azione, per quanto temporanea e occasionale, fra soggetti differenti quali appunto Nosadella.due, MAMbo – Museo d’Arte Moderna di Bologna, e neon>campobase, storica piattaforma di sperimentazione artistica bolognese.

Al termine della residenza Nico Dockx ha realizzato through time & today, un doppio intervento sviluppato tra Nosadella.due e neon>campobase quale tappa bolognese di un “archivio del presente” cui l’artista lavora da anni quale lettura a posteriori di accadimenti, situazioni, dialoghi, immagini, relazioni, che hanno fatto parte della sua vita e di cui ha più o meno volontariamente conservato un frammento.

L’archivio è uno strumento cinetico per la comunicazione e la connessione con l’“altro”…I miei archivi credo siano una mescolanza di molte differenti costellazioni private e di misteriose alchimie personali.” (ND)

A neon>campobase Dockx presenta una triplice versione del video through time & today in cui si raccontano tre differenti e possibili approcci alla narrazione. Tutti ugualmente validi, la versione definitiva di un video già pubblicamente esposto, quella precedentemente scartata, come l’ulteriore versione che ne svela il processo di ripresa originale, i tre approcci alla stessa realtà suggeriscono lo scorrere del tempo e l’impossibilità di una codificazione definitiva.

Per Nosadella.due, through time & today si arricchisce invece dell’esperienza avuta nei due mesi di permanenza a Bologna per trasformarsi in un libro d’artista che, redatto in collaborazione con Helena Sidiropoulos, scrittrice e artista belga, già compagna di Dockx in numerosi progetti, illustra una duplice lettura di materiali appartenenti ad un tempo comune ma a una percezione ed esperienza talvolta differenti. Un libro che si avvale dell’apporto di altri contributi (quelli di Andrea Viliani, Elisa Del Prete, Gino Gianuizzi), che diventano nuovi documenti dell’esperienza, e di un reader molto speciale come Douglas Park, già collaboratore di Nico Dockx in altri progetti, in grado di fornire una lettura vocale, ponte di connessione col pubblico, nel corso di una doppia performance per l’inaugurazione.
Accanto alla pubblicazione, una raccolta di immagini selezionate e ordinate sempre secondo due differenti approcci alla realtà delle cose ri-vissute attraverso i materiali dell’archivio dai due artisti, sarà proiettata nell’ambiente privato vissuto dagli artisti a Nosadella.due, che, durante la mostra, viene pubblicamente condiviso.
Inoltre, un’insegna luminosa che altro non è che un infantile scarabocchio, capitolo anch’esso della medesima storia, diventa, all’esterno dell’edificio, pagina scritta sulla città e fonte di richiamo alla sede della residenza.

Selezionato da Daniela Cascella, giornalista e curatrice indipendente di Roma, Andreas Golinski ha invece lavorato sulla memoria a partire da un fatto non personale ma “storico”. Prendendo spunto da un recente romanzo di Adriano Prosperi, “Dare l’anima. Storia di un infanticidio”, dedicato alla vera storia di Lucia Cremonini, giovane donna giustiziata, nella Bologna papalina del 1709, per l’infanticidio del proprio neonato, l’artista affronta un passato dimenticato che al tempo stesso fa riflettere su un tema di ancora forte attualità come quello delle nascite frutto di violenza o rifiutate dalle stesse madri per mancanza di mezzi e/o indulgenza. La rievocazione del dramma storico preso in esame da Golinski avviene però a livello di coscienza senza alcuna narrazione, dando vita, nella monolitica installazione in mostra, a suggestioni di forte impatto, in grado di suscitare stati d’animo, più che di rievocare l’evento stesso. Facendosi largo tra l’inquietudine di stanze puntualmente illuminate, il pubblico brancola nel buio della propria coscienza raccogliendo impressioni di un racconto mai svelato.
L’intento dell’artista infatti è quello di ri-educare la nostra coscienza, di insinuarsi nella nostra mente, di ri-dare consapevolezza e responsabilità alla nostra percezione di fronte a fatti che tendono invece a scivolare via dalle nostre menti cancellati da altre sollecitazioni che subentrano senza tregua. In questo senso la ricerca dell’artista si orienta anche verso una riflessione che indaga le modalità attuali di comunicazione mediatica che ormai imperversano nella nostra quotidiana percezione dei fatti e sempre di più influenzano anche la relazione tra le persone stesse.

Nico Dockx (Antwerpen, 1974) è a Bologna per la terza volta, dopo la mostra da neon>campobase nel 2003 e quella col collettivo Building Transmissions in occasione della chiusura della GAM nel 2006. Già presente a livello internazionale presso importanti musei come il MuHKA di Anversa, il CCA di Kitakyushu, e il Centre International d’art et du paysage di Vassiviere, e ospite alla Biennale di Venezia nel 2003, Nico Dockx si è inoltre aggiudicato quest’anno la residenza al Künstlerhaus Bethanien di Berlino.

Andreas Golinski (Essen, 1979), dopo essersi laureato presso la University of Art di Basilea, ha esposto al Museum of Contemporary Art di Basel, al Museum Beaux Art di Mulhouse ed è stato selezionato per il corso di formazione della Fondazione Ratti di Como nel 2005 sotto la guida del visitor professor Alfredo Jarr per cui ha esposto nello stesso anno per la mostra conclusiva ad Assab One (MI).

La mostra finale “Blackout” a Nosadella.due, è stata resa possibile grazie al contributo di Emil Banca – Banca di Credito Cooperativo, Regione Emilia-Romagna, Comune di Bologna, ArteFiera e alla collaborazione di sponsor tecnici e aziende locali quali Tipografia Irnerio, IronCup, Nettuno Neon, Eurovideo, La Bandiga.

“Ballare a Bologna, Super Late” di Aleksandrjia Ajdukovic

Un progetto artistico per lo spazio pubblico nell'ambito di Learning from Malpighi

L’artista serba Aleksandrjia Ajdukovic è artista in residenza a Nosadella.due – Independent Residency for Public Art,  per la realizzazione di un progetto nel contesto pubblico bolognese di piazza Malpighi e piazza San Francesco.

Il progetto è un ritratto silente di queste due piazze animato dal movimento di abitanti e passanti invitati a fermarsi nei luoghi in cui si trovano in un preciso momento per interpretarli attraverso il ballo. L’artista ha realizzato un breve film in super8 dal titolo Ballare a Bologna, Super Late, ispirato ai filmati degli anni Ottanta della garage band Dirtbombs. Giocando sul modo di dire Super Late, che allude al mezzo da lei utilizzato ma che rimanda al tempo stesso allo stereotipo del “ritardo” con cui gli italiani sono spesso classificati, il ritmo del ballo diventa mezzo di paragone per leggere e sospendere il ritmo frenetico della città rispetto al quale si ha l’impressione di essere sempre in ritardo.

Il progetto è parte di “learning from malpighi – sguardi e direzioni per piazza Malpighi e piazza San Francesco” ideato da Re:Habitat, associazione fondata da diversi soggetti creativi – fra cui Nosadella.due – quale gruppo di rigenerazione urbana, che ha sperimentato negli anni vari percorsi condividendo progettazioni in ambito culturale, artistico, formativo e dello sviluppo del territorio.
Learning from malpighi è un percorso di osservazione e ascolto dello spazio urbano che nell’arco di due mesi si sviluppa grazie ad una molteplicità di sguardi con approcci derivati dal metodo etnografico ed etnosemiotico, per far emergere varianti e invarianti nelle frazioni di vissuto e nelle pratiche esperienziali nelle due piazze.

L’osservazione, promossa da Urban Center Bologna e Quartiere Saragozza si inserisce nell’ambito di Di nuovo in centro, il piano per una nuova pedonalità del Comune di Bologna che intende affrontare alcune problematiche relative ai problemi di accessibilità e vivibilità nel centro della città e che ha fra le prossime tappe una riconfigurazione di piazza Malpighi e dell’adiacente piazza San Francesco, “luoghi cerniera” fra la parte più esterna e il nucleo più antico del centro storico (la cerchia del Mille).

Esito del percorso sono report grafici e testuali, documentazione fotografica e video, cartografie qualitative, infografiche, da cui emergono indicazioni quali-quantitative utili per il disegno delle due piazze di San Francesco e Malpighi, che Urban Center Bologna ha messo a disposizione dell’amministrazione per mostrare, discutere e comunicare ai cittadini le trasformazioni in atto.

Aleksandrija Ajdukovic (Osijek, Croazia – 1975) ha studiato Fotografia all’Accademia artistica “BK” di Belgrado, dove attulamente vive, e a quella di Novi Sad. Dopo aver seguito il corso sulle Pratiche artistiche post-concettuali dell’artista Marina Grzinic sta attualmente svolgendo un dottorato presso la Facoltà di Drammaturgia di Belgrado al dipartimento di teoria cinematigrafica, culturale e mediatica. È stata finalista per due edizioni del premio Mangelos per giovani artisti. È membro dell’Associaizone degli artisti visivi serbi ULUS. Interrogando principalmente lo sguardo e le voci dei passanti, l’artista immortala i fenomeni della vita moderna e il loro riflettersi quotidiano nel mondo della moda, della pop-culture e dello stile di vita di aree (non) urbane, in modo sempre ironico e indiretto

“Torri Contemporanee” con Beatrice Catanzaro, Søren Lose e Andrea Nacciarriti

Un progetto artistico per lo spazio pubblico

In occasione del restauro delle Due Torri, sostenuto e promosso dalla Fondazione del Monte di Bologna e Ravenna, in collaborazione con il Comune di Bologna, “Torri Contemporanee” è un programma di residenza promosso da Nosadella.due in collaborazione con Articolture che vede invitati i tre artisti Beatrice Catanzaro, Søren Lose e Andrea Nacciarriti a intervenire sulle facciate di tre torri storiche della città con tre progetti appositamente commissionati.
Gli interventi temporanei prevedono la rilettura del patrimonio turrito attraverso lo sguardo non convenzionale dell’artista contemporaneo, che, utilizzando linguaggi e codici nuovi, si concede ripensamenti fantastici a servizio della storia e del nostro passato. Le opere creano quindi una sottile e giocosa alterazione del tessuto urbano, capace di scardinare l’abituale percezione di luoghi familiari, attirando da un lato l’attenzione dei bolognesi e dall’altro la curiosità dei turisti.

La Torre Alberici (Via Santo Stefano, 4)
Dove un tempo esisteva la vecchia dogana cittadina, ora ci si imbatte nel Palazzo della Mercanzia, progettato sul finire del 1300 dallo stesso architetto della chiesa di San Petronio. Alla sua sinistra, gli antichi palazzi dai portici in legno cominciano a dare memoria della Bologna medievale e poco oltre si scorge la Torre Alberici. La famiglia la eresse nel XII secolo: purtroppo i suoi 27 metri d’altezza sono rimasti per lungo tempo soffocati da un modesto edificio che ne nascondeva la vista e solo nel 1928, grazie ad un accurato restauro delle case adiacenti, ha ritrovato l’antico respiro. Fortunatamente, ancora oggi è possibile vedere la suggestivissima bottega con serraglia di legno a forma di ribalta, mantenuta durante il restauro al posto della base originaria. Si dice che sia la più antica di Bologna, risalente al 1273, al tempo realizzata per 25 lire: i lavori hanno comportato la scarnificazione dei muri, come si usava fare per ampliarne lo spazio interno. Lo spessore originario dei muri lascia per contro pensare che la Torre stessa potesse essere inizialmente più alta. E’ probabile che in epoca successiva sia stata poi abbassata per ridurne il peso e per lo stesso motivo, nella medesima occasione la sommità è stata trasformata in altana. Allo stesso modo, la torre reca traccia ben visibile sulla facciata dei tipici fori da ponte della Bologna medievale, e alcuni covili: i primi servivano da ancoraggio per le impalcature del cantiere di costruzione della torre stessa, i secondi, più grandi, per incastrare travi di legno per il labirinto di ballatoi, scale e solai che mettevano in comunicazione i vari piani della torre, o la torre con le case e le torri vicine, di consorti o famiglie amiche.

Il progetto: Scaffolder/ponteggio
A Bologna Beatrice Catanzaro interviene sulla Torre Alberici, di cui approfondisce ed esalta il punto di vista storico ed architettonico. L’installazione propone un parallelismo tra le tecniche costruttive medievali, che prevedevano l’utilizzo di travi in legno per la realizzazione dei ponteggi, di cui i fori quadrati presenti sulle facciate delle torri ne sono un segno tuttora visibile, e le attuali impalcature in bambù, materiale flessibile e resistente, normalmente utilizzate nei cantieri dei paesi del sud est asiatico.
L’opera getta quindi un ponte ideale tra la Bologna medievale e la Cina di oggi, utilizzando il bambù come elemento contemporaneo e straniante , che mentre rievoca le antiche tecniche edificatorie, avvicina due culture non più così distanti.

L’artista: Beatrice Catanzaro
Nata a Milano nel 1975, vive e lavora a Lisbona. Realizza azioni e interventi di arte pubblica con particolare interesse per le dinamiche socio-politiche, che caratterizzano l’evoluzione della società contemporanea. I suoi progetti mostrano un comune denominatore: la profonda sensibilità verso le problematiche urbane e sociali, evidenziate con ironia e leggerezza attraverso la pratica artistica. Beatrice intreccia storie, percezioni, significati e luoghi accostando realtà talora lontane e dissonanti, ponendo l’accento sulle contraddizioni e sui paradossi dei diversi contesti urbani e sul modo con cui gli abitanti vi si relazionano.
Diplomata all’Accademia di Belle Arti di Brera in Pittura, partecipa al Master in Arte Pubblica e nuove strategie artistiche all’Università Bauhaus di Weimar con un programma di scambio alla Brookes University di Oxford. Tra il 2003 e il 2004 partecipa al programma di residenza della Fondazione Ratti e alla residenza artistica internazionale Unidee a Cittadellarte – Fondazione Pistoletto.

La Torre Lambertini (Piazza Re Enzo)
Bisogna osservare Palazzo Re Enzo da via Rizzoli per scorgere, con un po’ d’attenzione, la sagoma della torre Lambertini, incastonata – e mimetizzata – proprio sullo spigolo nord orientale del Palazzo. Si tratta più propriamente di una casatorre, che venne acquistata nel 1294 dal Comune di Bologna per ingrandire la sua residenza, formata dal palatium vetus – l’antecedente complesso del Podestà, e il palatium novum, il cosidetto Re Enzo. Famiglia guelfa di molto peso nelle cruente contrapposizioni per il potere della Bologna comunale, i Lambertini contribuirono fortemente alla cacciata dei Lambertazzi, gli esponenti ghibellini in città, avvenuta nel 1274 dopo più di quarant’anni di zuffe, incendi e saccheggi. Ma soprattutto a loro è ascritta la celebre cattura di Enzo, re di Sardegna e figlio dell’imperatore Federico II, che passò la sua restante vita rinchiuso nel palazzo, cui quanto meno venne lasciato il suo nome. Terminata la stirpe, a ricordare il passato illustre della famiglia è rimasta solo la torre, edificio sostanzialmente esile, di 25 metri, rimaneggiato nei secoli. Altana, porte e finestre sono state realizzate in tempi diversi, senza ovviamente considerare l’apertura al pianoterreno. Originali dovrebbero essere la porticina col balconcino e la finestrella più piccola, visibili sul prospetto orientale, cioè le uniche aperture che possano ritenersi del XII secolo. Infatti la grande porta e le finestre più ampie hanno uno stile più moderno e sono state presumibilmente realizzate quando la torre è stata assegnata al Capitano del Popolo, la magistratura cittadina del 1255. Incorporata nel palazzo, ha subito ovvi riadattamenti interni. Altri ne sono occorsi un cinquantennio dopo, quando il palazzo è divenuto prigione, prima femminile, poi per gli stessi Capitano del Popolo e Podestà. Poi ancora: sede del primo orologio meccanico pubblico, di cui anche ora, guardando in alto sempre sul lato di levante, è possibile notare le due grosse mensole che lo reggevano. Altri interventi sono riconducibili ai primi Novecento, sotto le direttive di Alfonso Rubbiani, connotati da un restauro “in stile” che oggi rende difficile distinguere ciò che è autentico e ciò che non lo è.

Il progetto: Unperfect Structure
L’intervento pensato per la Lambertini prevede il rivestimento parziale delle due facciate della torre con lamelle di polistirolo, che ricordano gli elementi di una architettura moderna collassata su sé stessa e ridotta ormai a rovina archeologica. La torre medievale a cui i pannelli si appoggiano è al contrario solida e massiccia, in grado di resistere al passare del tempo. L’artista invita a riflettere sul paradosso dello sforzo conservativo attuale che, rivolto esclusivamente all’antico, trascura i monumenti moderni, lasciandoli spesso in uno stato di abbandono e degrado.

L’artista: Søren Lose
Nato in Danimarca, a Nykøbing Falster, nel 1972, diplomato all’Accademia di Belle Arti di Copenhagen, vive e lavora a Berlino. Principalmente con la fotografia, ma anche col video e con l’ installazione, cercando un’interazione fra i diversi linguaggi con cui esplora il tema del viaggio e quindi del tempo. Le sue opere rivelano una profonda sensibilità verso i sentimenti malinconici – dal sapore ottocentesco – ispirati dalla visione di rovine architettoniche, rievocazione di quell’atteggiamento romantico comune a molti artisti del Nord Europa. Allo stesso tempo, però, l’artista è attento e interessato alla lucida e rigorosa bellezza delle forme architettoniche moderne e quindi la sua poetica è un continuo confronto tra antico e presente. Nelle sue opere architetture passate e moderne si scontrano, dialogano fino a fondersi, fino a creare nuovi ibridi, dando vita ad un tempo irreale e sospeso.
Nel 2008 espone in Italia per la prima volta, a Milano presso la Galleria Riccardo Crespi e a Berlino, sua città adottiva, installa Abendland nello spazio Künstlerhaus Bethanien.

La Torre Uguzzoni (Vicolo Mandria – Ghetto ebraico)
Varcando simbolicamente uno dei “cancelli” di quello che per secoli è stato il ghetto ebraico di Bologna, una quiete insolita accoglie il passante che arriva da via Oberdan o da piazzetta San Simone, e si immette tra vicolo Tubertini e vicolo Mandria, in vie spesso ignote alla maggior parte degli stessi bolognesi. Questo scorcio urbano, nei suoi paesaggi cupi e gli stretti androni, più di altre vedute rievocano la grevità della Bologna Medievale. Su vicolo Mandria, una volta di mattoni scuri, e sulla sinistra, in tutta la sua sinistra bellezza, la Torre Uguzzoni, incastonata in un angolo che sembra non aver conosciuto il passare del tempo. Trentadue metri, su una base molto ampia, rivestita di blocchi di selenite disposti a filo dei muri e non a scarpa, come di norma. In cima è visibile un’altana che corona l’edificio, ma sicuramente postuma, di epoca sei-settecentesca. E ancora, l’antica porta che si apre sullo zoccolo, con il consueto architrave in selenite sormontato da un arco a sesto acuto in mattoni; le due finestre, una ad arco tondo sulla sinistra e un’altra, anch’essa arcuata ma più centrale. Questa diposizione disassata delle aperture fa propendere per una casatorre, piuttosto che una vera e propria torre. Sotto la finestra del primo piano, i 5 netti fori da ponte, che evidentemente reggevano le travi in legno del ballatoio, completano questa fotografia quasi realistica di un tempo che fu.

Il progetto: Untitled (Quelli di Cernauti)
Andrea Nacciarriti interviene sulla Torre Uguzzoni espandendone i confini spaziali nella terza direzione, attraverso l’innesto di un elemento estraneo e decontestualizzato. La visione delle incisioni medievali, in cui uomini si gettano dalle torri in fiamme o vengono defenestrati, e il ricordo dell’immagine universale e tragica delle vittime dell’11 settembre che si lanciano dalle Torri Gemelle, hanno provocato nell’artista la necessità di architettare un sistema salvifico, via di scampo per la torre antica come per il grattacielo contemporaneo. Ecco che una porta da calcio regolamentare rovesciata funge da rete di salvataggio, per salvare simbolicamente i prossimi caduti: un concetto forte esplicitato da elemento molto caro alla bolognesità sportiva. L’opera diventa un monumento, che l’artista decide di dedicare alla memoria del calciatore del Bologna Rino Pagotto e alla sua squadra improvvisata durante la deportazione nei lager nazisti. Quelli di Cernauti, appunto, al tempo Chernivtsi, città dell’attuale Ucraina, che nello sport trovarono una via d’uscita dall’orrore della guerra.

L’artista: Andrea Nacciarriti
Nato a Ostra Vetere nel 1975, vive e lavora a Senigallia. I suoi lavori si distinguono per la serrata relazione con il contesto ambientale e architettonico da cui l’intervento trae ispirazione: sono astrazioni geometriche che si inseriscono e interagiscono con lo spazio che le accoglie, oppure protesi e sovrastrutture – monumentali ready made – che ne alterano la percezione. La linearità e l’essenzialità dei colori e delle forme non sono tuttavia per l’artista un limite all’esplorazione di significati antropologici e sociali. Ne è un esempio il filone di opere suggerite dalla sua passione personale per il calcio, disciplina sportiva e allo stesso tempo fenomeno sociologico, di cui riprende il lessico, popolare ed immediato, per poi riadattarlo come medium comunicativo delle sue opere.
Diplomato all’Accademia di Belle Arti di Bologna, dopo un periodo di residenza e studio a Bilbao, partecipa al Corso Superiore di Arti Visive della Fondazione Ratti di Como.

 

Nino Strohecker “Victims”

Nell'ambito della rassegna Archivio Aperto 2014 promossa da Home Movies

Per la settima edizione di Archivio Aperto, rassegna dedicata alla rilettura e rielaborazione del cinema privato, Nosadella.due e Home Movies – Archivio Nazionale del Film di Famiglia  presentano al Museo Internazionale della Musica di Bologna l’installazione video Victims di Nino Strohecker.

Punto di partenza di Victims è un film amatoriale girato in 16mm nel 1938 regalato all’artista da un amico di famiglia:

“Per farlo mio e sentire che potevo liberamente lavorare su questo materiale – dice l’artista – ho dovuto distorcerlo, alienarlo dal suo contesto originale, spostarlo su un livello visivo differente, ridurlo, senza però distruggere l’originale. L’analogico che incontra il digitale è probabilmente il modo migliore per descrivere il mio modo di lavorare.”

Si tratta di materiale personale di forte impatto che apre un breve squarcio sulla vita del popolo austriaco nel periodo segnato dalla depressione economica, dall’invasione del nazionalsocialismo con Adolf Hitler e dall’inizio della Seconda Guerra Mondiale.
Nelle brevi sequenze una folla di 200.000 austriaci acclama l’entrata del Führer a Vienna a Heldenplatz il 2 aprile 1938, al tempo stesso si scorgono frammenti della vita privata di una coppia, delle loro famiglia e di alcuni amici. Oggi sappiamo che si tratta di Dorothea Praun e Karl Triebnig, due cittadini che sarebbero rimasti anonimi se il caso non avesse fatto intrecciare storia e storie, passato e presente. Due eventi apparentemente scollegati ci permettono oggi questa visione: per prima cosa Eduard, il fratello maggiore di Karl, aveva comprato una telecamera, probabilmente solo per riprendere frammenti di una vita anonima, cosa straordinaria per quell’epoca; poi, settant’anni più tardi, per pura coincidenza, parte delle sue pellicole vengono regalate a Nino Strohecker.
Solo dopo diverso tempo e faticose visioni Nino riesce a vedere tutto il materiale ed è in uno dei fotogrammi ingranditi sul muro del suo studio che riconosce il nome della sua bisnonna su una lapide tombale. Il film era tra i tanti girati da Eduard per riprendere la storia della sua famiglia nella sua banale quotidianità, i bambini che giocano, le vacanze, le gite di famiglia, il matrimonio del fratello Karl con Dorothea, il 19 luglio 1938, poco dopo che i Nazisti reclamano l’Austria…
Inaspettatamente e incredibilmente Nino scopre che Dorothea e Karl sono i suoi nonni…

Per vederlo cliccare qui: Victims 

“Obbedire con gli occhi chiusi è l’inizio del panico”: il pericolo di una società che aderisce ciecamente a forme di propaganda non potrebbe essere espresso più appropriatamente di come viene sintetizzato in questa frase di Maurice Merleau-Ponty.
Victims è una meditazione filmica su una parte di storia austriaca, una storia che mette in discussione il ruolo del paese in quanto presunta vittima del nazionalsocialismo durante la Seconda Guerra Mondiale, ma in cui si intrecciano anche storie personali che si riverberano sul tempo attuale. Uno sguardo a chi si è stati per interrogarsi su chi si è.
La pellicola in 16mm b/n, sopravvissuta non solo alla seconda guerra mondiale ma anche a settant’anni di storia privata successiva, è stata scansionata al computer dall’artista fotogramma per fotogramma per non danneggiarla e per tradurla in materiale proprio. Il video finale si compone di oltre 16.000 fotogrammi che, a una velocità di 12 fotogrammi al secondo per la durata di 23 minuti, restituiscono allo spettatore l’impressione di un vecchio film conferendogli al tempo stesso un dichiarato legame al tempo attuale della post-produzione. La musica è composta da Wolfgang Dorninger e da Didi Bruckmayr, che ha musicato la canzone senza parole.

Nino Strohecker (Salisburgo, 1972) vive tra Stoccolma e Berlino. Laureato in Film/Video all’Università di Linz, nel 2001 apre e avvia con la designer Sandra Praun lo spazio Designstudio S. È tra i fondatori, nel 2008 della prima VJ community svedese VJ Union e nel 2010 di Creative Source, la prima biblioteca d’arte a libero accesso di Belgrado.

Victims è stato premiato nel 2009 come migliore debutto registico internazionale di cortometraggi al New York International Independent Film & Video Festival, miglior cortometraggio internazionale d’avanguardia al New York International Independent Film & Video Festival di Los Angeles e ha conquistato il secondo posto al Reelheart International Film Festival del Canada; nel 2008 ha avuto menzione d’onore alla Accolade Competition USA e al New Jersey IFF oltre ad ottenere il premio al merito all’Indie Fest USA. È stato selezionato per numerosi festival internazionali.

“Mobili” con Flavio Favelli, Boaz Kaizman, Simon Moretti, Pantani-Surace, Reynolds/Jolley, Vedovamazzei

Mostra di inaugurazione di Nosadella.due

Mobili è la mostra di apertura di Nosadella.due. I sei artisti internazionali Flavio Favelli, Boaz Kaizman, Simon Moretti, Pantani-Surace, Reynolds/Jolley, Vedovamazzei trasformano gli spazi privati della casa attraverso installazioni site specific in ogni stanza: così Nosadella.due si presenta al pubblico diventando luogo per la sperimentazione artistica, residenza per artisti e curatori, contenitore e contenuto, abitazione ed asilo della creazione.
ArteFiera, primo partner cittadino di Nosadella.due, fa da cornice all’evento.

Personal (2007), di Flavio Favelli (I), interpreta un’atmosfera per crearne un’altra, personale. L’artista posa su un vecchio parquet un altro parquet portatore anch’esso di tracce del suo vissuto. Un nuovo racconto si posa su un racconto già accaduto, come il presente sul passato. Gli elementi di entrambi si contaminano a vicenda così che i mobili di Favelli è come se vivessero dei ricordi che vi si depositano sopra, ricordi personali, collettivi, sconosciuti seppur esistiti. Il suo è un lavoro sulla memoria che scaturisce dagli oggetti rispetto al proprio pensiero, e sulla necessità o inevitabilità di conservarla per dare un senso a situazioni, immagini, sensazioni. In questa ricerca la casa, i mobili, le sue strutture spesso inavvertibili diventano sede di conservazione e sviluppo della memoria stessa.

Maleesh (2004), di Boaz Kaizman (IL), è un video che è anche opera pittorica. Disegni e decorazioni si srotolano su tappeti che perdono la loro consistenza per diventare supporti di storia e tradizione. Espressione artistica antichissima, quella della tessitura non è puro ornamento ma assume un significato intimo e religioso. Le decorazioni diventano vero alfabeto di un lingua che è quella del popolo iraniano e della sua storia. Proprio di un certo popolo, della sua cultura, delle sue lotte e della sua sensibilità racconta la voce di David Galloway mentre riferisce del suo incarico alla direzione del museo d’are contemporanea di Tehran. Un museo voluto dalla Regina e dallo Scià di Persia nel 1977 per fare un dono al suo popolo, per rinnovare, modernizzare, forse contaminare, la tradizione artistica peculiare e radicata orientale con quella occidentale. Un discorso sulla propria origine e identità quello di Kaizman, israeliano emigrato in Germania, che ancora vive la sua condizione di straniero.

Il lavoro di Simon Moretti (I) – Insignia – è molteplice. Sulla porta d’ingresso a Nosadella.due l’artista colloca un’insegna che invita il visitatore a soffermarsi, a guardare, ad entrare. Entrare significa mettersi in relazione con uno spazio condiviso e adottare nuove modalità di relazioni. La ricerca dell’artista si spinge infatti ad analizzare il senso dei rapporti sociali e della comunicazione su cui si basano. I due guardiani dell’insegna difendono Nosadella.due al pari di un sito religioso. L’occhio contribuisce a suscitare rispetto e riverenza, è il focus, l’attenzione, la meta. Il neon, in cui non mancano i riferimenti al linguaggio e alla simbologia modernista (mai soltanto citazioni, bensì rivisitazioni in chiave attuale, giocosa e sempre artigianalmente personale degli intenti originari delle varie correnti) diventa un inno al valore della residenza, sede temporanea di abitazione e condivisione di progetti e idee degli artisti che vi sono ospiti.

Pantani-Surace (I) realizzano Voglio sentire il rumore di tutte le cose… (2007), rinnovando e parodiando un precedente lavoro, coglie tutto il sentimento della tenace caducità che vive in una camera in cui si conserva ancora il sapore di una tradizione implacabile. La fragilità, il segreto e la precarietà del vivere quotidiano si insinuano nella stanza con impercettibile ma inesorabile insistenza. La sensibilità e curiosità dei due artisti verso cambiamenti, alterazioni e aspetti inafferrabili, sottili e minimali della realtà quotidiana, in risposta al rumore di azioni sempre più eclatanti e maestose, rende ogni lavoro di una poesia unica che ogni volta incanta e stupisce. Una poetica, la loro, che condensa e riassume il tutto nell’essenziale, nel transitorio, nell’attimo che di continuo rinnova se stesso proprio come una goccia che, col suo scorrere ostinato, lava e corrode un cristallo. La loro ricerca si concentra sulla processualità e il divenire delle cose e dei fenomeni.

Patrick Jolley (IR), fotografo, e Reynold Reynolds (US), artista filmmaker, collaborano dal 1995 nella realizzazione di film. Nosadella.due presenta in anteprima italiana il loro lavoro Sugar (2004). Già nella loro celebre trilogia, Seven Days ’til Sunday (1998), The Drowning Room (2000) e Burn (2001) presentavano sequenze domestiche di vita quotidiana vissute in condizioni estreme. Le immagini di Sugar sono di un’intensità ancora più claustrofobica e mettono in scena un susseguirsi di drammi domestici dettati dalla repressione e dalla paranoia del vivere quotidiano che sfiorano atmosfere horror. I personaggi dei loro video sono sempre i protagonisti di scene di quotidiano delirio di fronte ad un fato implacabile a cui rinunciano a reagire. Sugar è una vera narrazione cinematografica, un film, in cui, attraverso citazioni e riferimenti, prendono vita reale deliri, angosce, visioni di una mente intrappolata in un vivere quotidiano che genera abbandono e moltiplica cadaveri di se stessi.

Il duo Vedovamazzei (I) ha scelto una linea dura per inasprire l’ospitale soggiorno di Nosadella.due con il lavoro Milioni di morti fanno meno male di una zampa ferita (2006), precedentemente esposto al MADRE di Napoli. Inquietante nella sua contraddittorietà e duplicità, il lavoro di Vedovamazzei ribalta “la rigidità della convenzioni” cui la realtà e la vita ci istruisce attraverso la messa a nudo degli aspetti tragicomici della vita umana. Sette vecchie poltrone lacerate da artigli felini simboleggiano in modo pungente il sovrastare di un egoismo collettivo che fa prevalere nell’epoca attuale del benessere e della comodità, una dimensione ad ogni costo individuale che non si cura di una collettività cui appartiene. La loro ricerca e il loro pensiero si incuneano profondamente e aspramente nel presente, per svelarne dinamiche e sfaccettature spesso ridicole e drammatiche al tempo stesso. La forza dei due artisti risiede ancora una volta nella loro inesauribile abilità a ricorrere ad un universo immaginativo senza fine, che li fa sfuggire a qualsiasi classificazione lasciando spazio allo stupore.

Adelaide Cioni “à propos de Bacchelli 5”

Nell'ambito della rassegna Archivio Aperto 2015 promossa da Home Movies

Per l’ottava edizione di Archivio Aperto, rassegna dedicata alla rilettura e rielaborazione del cinema privato, Nosadella.due e Home Movies – Archivio Nazionale del Film di Famiglia  presentano al Museo Internazionale della Musica di Bologna l’installazione à propos de Bacchelli 5 di Adelaide Cioni.

L’installazione prende spunto dagli oggetti della casa bolognese in cui l’artista ha vissuto per più di trent’anni, fino al 2009. Prima di abbandonarla, disegna e prende le misure di alcuni dettagli delle stanze a lei particolarmente preziosi, ma, ad un occhio esterno, apparentemente banali e insignificanti. Incidendo direttamente sulla pellicola con una punta metallica, l’artista proietta delle diapositive dei suoi ricordi con i mitici proiettori Kodak Carousel e riempie lo spazio di una memoria intima e soffusa di momenti così personali da attivare l’immaginario privato di ognuno di noi. L’immaterialità della memoria si rende visibile come traccia di luce degli oggetti magici che appaiono presenti nella proiezione, ma che appartengono a un’altra realtà. Estraniate dal contesto, le immagini perdono la loro riconoscibilità istantanea, assumendo significati molteplici da decifrare e interpretare, che seguono i moti del ricordo e dell’immaginario. Nell’ipnotico susseguirsi di scorci, dettagli, segni, schizzi, misure, linee, spesso dal tratto infantile, sulle superfici luminose, quel legame invisibile e immateriale si ricrea come per magia in ognuno di noi: inattese scintille di smarrite reminiscenze.

Adelaide Cioni ha studiato disegno presso la UCLA di Los Angeles e scultura presso l’Accademia di Belle Arti di Roma. Si è laureata in Storia Contemporanea con un Master in traduzione letteraria e da diversi anni traduce tra i più importanti scrittori della letteratura americana. Con il lavoro à propos de Bacchelli 5 ha vinto il Premio Celeste 2014 per la categoria Installazione, Scultura e Performance.

 

 

“Matrimonio all’Italiana” con Fabio Giorgi Alberti, Francesco Carone, Flavio Favelli, Fratelli Broche, Eleonora Quadri, Mirko Smerdel

Nell'ambito della rassegna Archivio Aperto 2016 promossa da Home Movies

Per la nona edizione di Archivio Aperto, rassegna dedicata alla rilettura e rielaborazione del cinema privato, Nosadella.due e Home Movies – Archivio Nazionale del Film di Famiglia  presentano la mostra con i progetti artistici vincitori dell’art contest Matrimonio all’Italiana.

Il matrimonio con i suoi rituali e le sue tradizioni apparentemente immutabili è uno dei soggetti principali dei film conservati nell’archivio di Home Movies, che ne conta diverse centinaia coprendo un periodo storico che va dagli anni Venti alla fine degli anni Ottanta. L’art contest si propone come occasione per farli rivivere attraverso l’interpretazione di artisti che hanno proposto opere ad hoc ispirandosi ai materiali dell’archivio.

In una location d’eccezione quale l’ex Atelier Corradi in Via Rizzoli 7, sotto le due torri a Bologna, una sartoria per abiti da sposa della metà degli anni Cinquanta che conserva ancora arredi e attività originali, la mostra ospita i lavori di Fabio Giorgi Alberti, Francesco Carone, Flavio Favelli, Fratelli Broche, Eleonora Quadri, Mirko Smerdel.

La famiglia e la sua consacrazione matrimoniale è forse l’istituzione che più ha caratterizzato nel tempo l’identità nazionale, e ancora oggi è un “valore” che non viene meno, pur nelle sue profonde trasformazioni. Ma che cos’è diventata e come si è evoluta?
La mostra si propone di offrire uno sguardo alla storia del rito nuziale per leggerne codificazioni e variazioni, riconoscere un immaginario, contesti, ambienti, pose e gestualità che sono entrati a far parte della nostra idea di Matrimonio all’italiana, e ripensarne le evoluzioni, anche rispetto ai cambiamenti civili, religiosi, sociali e culturali in atto. Si tratta tuttavia di uno sguardo a distanza, di una lente che si avvicina e si allontana, attivando da un lato il nostro senso di appartenenza, dall’altro generando un processo di straniamento dovuto a volti non noti, a tempi passati e a pratiche che, viste da fuori, paiono bizzarre o desuete. Nelle immagini d’archivio di questi momenti privati sono ammessi solo i ricordi felici, ma dietro ad essi, il prima e il dopo di ogni scena immortalata e consegnata alla storia, alla propria storia privata come a quella collettiva, intuiamo l’assenza delle immagini mancate o, meglio, di quelle volutamente mancanti.

Gli artisti in mostra hanno dato una loro personale lettura al tema appropriandosi dei materiali messi loro a disposizione dall’archivio di Home Movies e facendoli parlare una nuova lingua anche grazie ai diversi supporti utilizzati.

L’opera che apre la mostra, 11 settembre 1966 di Flavio Favelli è un murale impermanente tratto dal menù di nozze dei suoi genitori. Accanto, una foto dell’album nuziale riprende gli sposi in una di quelle usanze tipiche della borghesia cattolica bolognese di far visita al Santuario del Baraccano per “prendere la pace”. Immagine che ricorre più volte anche nelle pellicole di Home Movies e che l’artista ha trasformato, dunque, in un poster seriale: “il matrimonio – ci dice Favelli riferendosi all’unione dei genitori – sì è interrotto tramite separazione nel 1975 e dissolto, tramite annullamento, nel 1978, anno dei Mondiali di Calcio in Argentina. Un ritratto spietato della vacuità di una celebrazione formale che necessita di codificarsi mediante rituali e ruoli che ne schiacciano ogni autenticità”.

Di fronte, quasi di riflesso, il video That Strange Moment di Fabio Giorgi Alberti ci mostra, con un’abile operazione di editing, un catalogo di scene matrimoniali, dall’arrivo degli sposi all’ingresso in chiesa, i genitori, i bambini, i sorrisi, i baci, il lancio del riso e naturalmente quello del bouquet, dettagli degli abbigliamenti e dei banchetti. Spostando l’attenzione dall’evento in sé alla sua documentazione e riportando scene del passato all’oggi proprio nella modalità attraverso cui un evento viene fruito, l’artista genera un interessante inventario o, se vogliamo, una “galleria di immagini” che mostra differenze sociali e comportamentali dei protagonisti, come i diversi ritmi e colori dei mezzi stessi di documentazione. L’opera diventa così non più solo un excursus sul rito del matrimonio, ma piuttosto una riflessione sulla pratica di documentarlo e sulle varianti che si sono susseguite nel tempo.

Di simile approccio il lavoro di Mirko Smerdel Where Even the Darkness is Something to See, che però fa sulle immagini d’archivio un lavoro di editing al contrario, montando oltre sei ore di “ritagli” di film di famiglia di Home Movies, con un audio appositamente realizzato dal musicista Federico Mengoni. A partire dai frammenti dei film originali, l’artista si pone l’obiettivo di indagare l’uso della fotografia e del video amatoriale come forma di rituale pubblico esso stesso, e come traccia dunque fondamentale di storia materiale di una quotidianità perduta. Ponendo lo sguardo di un privato al servizio di un linguaggio universale l’aspetto narrativo del film di famiglia viene meno a favore di una frammentazione che rispecchia l’arbitrarietà di ogni storia.

Di tutt’altra natura e umore è l’azione performativa Dinamiche di Matrimonio dei Fratelli Broche, che, proposta in un’unica replica, domenica 13 novembre, riflette in chiave decisamente contemporanea sul rito stesso del matrimonio e su come il suo significato si sia evoluto nel tempo anche rispetto ai cambiamenti in atto nella società. Adottando un linguaggio e una simbologia decisamente diversi da quelli che intravediamo sul fondo, appartenenti ai film amatoriali, la performance metterà in scena la celebrazione di nuova ritualità che, sebbene diversa, soprattutto nei ruoli, non farà altro che ribadire il senso primo del matrimonio, ovvero l’unione dei due soggetti. Ad accompagnare la performance, durante gli altri giorni di mostra, un’installazione ambientale di cake topper dialoga con i video di Home Movies e alcune immagini fotografiche appartenenti all’archivio privato dei Fratelli Broche: “sono immagini che rappresentano le nuove tribù familiari – dicono gli artisti -, identificative di momenti della nostra vita artistica e di nucleo familiare, divise per tematiche e abiti che ciascuno di noi indossa. Le nostre foto di famiglia.”

Lungo tutto il percorso della mostra si incontrano poi le sculture della serie Amori (“Amore a Psiche”, “Pigmalione e Galatea”, “Sarcofago degli sposi”, “Doppio ritratto di giovane coppia”, “Ritratto dei Conuigi Arnolfini”, “Baudelaire et la President Sabatier”) (2011-2016) in cui Francesco Carone riproduce in forma astratta un gesto di contatto tra due amanti ispirandosi all’immaginario che la storia e la storia dell’arte hanno lasciato: “Sono sempre stato interessato alle diverse forme di contatto fisico tra gli amanti – dice Carone – al modo in cui essi si toccano e a come questo, cambiando, sia stato rappresentato e interpretato durante la storia… Mi piace credere che con questi lavori io stia scolpendo non tanto delle ‘forme’, bensì dei ‘contatti’ tra le forme.” La serie Amori si rifà ad alcune immagini di amanti della storia dell’arte ormai celebri nella nostra memoria, da cui i titoli delle singole sculture. Venuta meno l’immagine, la tensione erotica si condensa in quella piccola superficie di unione che celebra il contatto tra le due parti. A queste Carone ne ha aggiunte altre che, sfogliando le immagini d’archivio dei matrimoni, si ispirano a quelle variazioni che gli sposi propongono nel toccarsi, sfiorarsi, abbracciarsi, baciarsi, prendersi sottobraccio, ecc, determinate, evidentemente, non solo dalla singola predisposizione dei soggetti, ma anche da fattori sociali, psicologici, geografici, culturali. L’immaginario del cinema amatoriale diventa così una nuova fonte iconografica, al pari della storia dell’arte, per celebrare l’unione degli amanti.

La mostra si chiude con l’immagine guida del lavoro di Eleonora Quadri Arbor eris certe mea [proiezione], il volto di una sposa in primo piano catturato durante i festeggiamenti, proveniente dal fondo Pietro Nicoletti del 1964 di Home Movies. Isolando, sovradimensionando e traducendolo il frame su un supporto di tela che le dona la nobiltà di un ritratto pittorico assieme al titolo tratto dal celebre mito ovidiano di Apollo e Dafne, l’artista trasforma questo volto in un’immagine sacra, icona del “matrimonio”. Solo intercettando lo sguardo diretto della sposa si incontra invece l’unico spazio originario di un corpo oggetto del travestimento nuziale in corso: “Sottratto allo scorrere continuo della pellicola – spiega la Quadri -, il fotogramma fissa l’istante in cui, sguardo in macchina, la sposa si arrende al rapporto diretto con la ripresa, complice del suo divenire immagine, riflesso di un modello di vita e di aspettative.”